Abbandonati e senza riferimenti, tranne gli assistenti sociali. Prima a lei e poi a lui, sono arrivati i sintomi del Covid-19 e invano hanno chiesto di fare i tamponi. Roberto e Lara (nomi di fantasia per tutelare privacy, ndr), marito e moglie, vivono e lavorano a Bergamo e a inizio marzo è iniziato il loro incubo come quello di un’intera città colpita dal violento contagio.
“Ha iniziato prima mia moglie con la febbre perdendo olfatto e gusto, poi il vomito continuo per due giorni compreso gocce di sangue”. Nel frattempo Roberto chiamava tutti i numeri indicati per l’emergenza e lo poteva fare solo al rientro da lavoro: “ci hanno fatto lavorare fino al 25 marzo e non è stata presa alcuna precauzione a parte non salutarsi”.
Poi la telefonata al medico curante: “secondo il medico non erano sintomi del Covid-19 ma mia moglie continuava a stare male – continua Roberto – e quindi ho chiamato Asl e guardia medica perché a differenza di ciò che dicevano il medico curante non era reperibile anche il sabato e la domenica. La guardia medica rimbalzava al numero regionale, qui spiegavo i sintomi e chiedevano se sapevamo fosse stata a contatto con una persona contagiata. Io rispondeva sempre ‘non sono un medico’ e volevo solo sapere se mia moglie poteva fare il tampone e capire se avevamo il virus visto che abbiamo anche una bimba di 6 anni”. La risposta era sempre la stessa: “noi ci affidiamo al sistema sanitario nazionale, ci sa dire se è stata a contatto con qualche positivo?”.
L’unica risposta che Roberto poteva dare era il fatto di essere stati insieme all’ospedale di Alzano Lombardo a metà febbraio, il comune della provincia di Bergamo tra i più colpiti finito sotto i riflettori nazionali. Dopo 15-20 giorni sono arrivati i sintomi a Lara che ha iniziato a stare male.
Dopo il 25 marzo Roberto si ferma con il lavoro, in piena epidemia. Il vicino di casa ha i loro stessi sintomi ed era stato a contatto il padre, poi deceduto: “anche al mio vicino di casa non hanno fatto il tampone, quindi non è vero che stando a contatto con qualche positivo fanno il tampone”.
A quel punto Roberto chiama il 118 da cui riceve sempre la stessa domanda: “è stato a contatto con qualcuno affetto dal Covid?”. A quel punto iniziava a salire la paura e la coppia pretendeva di meglio come avere un tampone, ma la risposta era sempre identica: “è possibile che lasciate le persone in casa da sole a curarsi?”, questa la domanda rabbiosa di Roberto.
Lara e Roberto hanno vissuto sulla propria pelle come troppe persone nella città lombarda più colpita siano stati lasciati soli. “Ci hanno fatto lavorare mentre gli ospedali erano ormai pieni e zeppi di ammalati gravi”. L’odissea, però, non finisce qui. Oggi Roberto è tornato al suo posto di lavoro: “autocertificazione, misurazione della febbre e una mascherina: questo è il sistema di sicurezza. Non si sa se c’è un asintomatico accanto a me o che con un tampone posso avere conferma di aver contratto il virus”.
A Roberto è rimasta impressa la frase di un sanitario al telefono quando ha chiesto come fare per il tampone: “ma lei si sente meglio? Allora quello che ha prescritto il medico va bene”. La sua considerazione finale è drammatica: “a quella dottoressa ho detto che evidentemente si sta giocando al si salvi chi può. A noi è andata bene, per noi c’è un prima e un dopo: ci siamo salvati”.
Questa la storia dei sopravvissuti di Bergamo, capitale Covid-19 nella regione Lombardia del “modello sanitario” a guida Lega Nord. Una regione dove è scattata l’inchiesta della magistratura per epidemia colposa e dove è scoppiato il caso degli anziani morti nelle Rsa. Chi pagherà per tutto questo dolore e questo lutto?
È uno schifo. Chi ha gestito la sanità dovrebbe avere il coraggio di andare via….tralasciando le eventuali responsabilità Penali o civili
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