Estratto del primo capitolo del libro “Le mani della città” (2013, Round Robin editore, 12euro), da un’idea del co-autore Giuseppe Manzo che ne ha curato 2 capitoli.
Sessantamila miliardi di vecchie lire. Trenta miliardi di euro. Quasi 60mila alloggi costruiti. I numeri spiegano i fenomeni e ne rendono chiara la portata. Queste sono le cifre del post terremoto in Campania.
Oggi bisogna partire da quel famoso 23 novembre 1980 per dotarsi delle lenti giuste e per vedere cosa sta avvenendo a Napoli. Quell’evento storico ha determinato una cesura nella storia della terza città d’Italia. Ha mosso capitali, prodotto meccanismi criminali e cambiato la vita di migliaia di persone. Cinquanta anni fa, il regista Francesco Rosi firmò un film epocale: Le mani sulla città. Quella pellicola raccontava la cementificazione e la speculazione che deformò Napoli e la sua morfologia.
Il sisma, invece, creò una scossa sociale di cui paghiamo conseguenze e nessun beneficio. Trenta miliardi di euro. Con questi soldi la capitale del Mezzogiorno avrebbe risolto qualsiasi problema in merito al diritto alla casa e alla domanda di edilizia pubblica. Con questo fiume di denaro fu inventata la prima grande emergenza su cui piombarono imprenditori, classe politica e clan della camorra.
Eppure non ci fu solo malaffare. La Napoli a cavallo degli anni ’70 e ’80 aveva il primo sindaco comunista a Palazzo San Giacomo: Maurizio Valenzi. Le strade della città erano attraversate da movimenti che lanciarono parole d’ordine e partecipazione di massa per decidere sul cambiamento della città.
Tra mille problemi e tensioni sociali quei movimenti di lotta furono capaci di trasformarsi in un movimento tellurico aperto ai bisogni popolari. Casa e lavoro, questo era il binomio della domanda di emancipazione nel proletariato e sottoproletariato urbano. Disoccupati organizzati, comitati di lotta, collettivi metropolitani e militanti diffusi provarono a leggere cosa stesse avvenendo. Poco prima del sisma videro il centro storico della città mutare repentinamente e svuotarsi. Quartieri come Montecalvario o Pendino persero quasi la metà dei propri residenti.
Ci fu uno spostamento verso le periferie, vecchie e nuove: Secondigliano, Ponticelli, Pianura. I movimenti definivano «deportazione» degli strati popolari questa «migrazione» dal centro antico, rifenrendosi a quel pezzo di popolo che fu la principale vittima di quel 23 novembre 1980. E all’indomani di quella domenica d’autunno quel popolo decise che era arrivato il momento di reagire e prendersi le case vuote. Era un loro diritto e si trovavano nella piena emergenza. Qualcuno, però, non era d’accordo. Per chi governava la città e quel terribile periodo successivo al sisma i leaders di quel movimento erano semplicemente terroristi.
«Gli untori del terrorismo»
La mattina del 12 maggio 1981 un’auto percorre via Santa Teresa degli scalzi, poco distante dal Museo nazionale. In quella vettura c’è Salvatore Amura, un giovane leader politico di 31 anni. Con la moglie Pina e il suo avvocato Vincenzo Siniscalchi, Salvatore si sta consegnando alla polizia dopo due mesi di latitanza. Insieme ad altri cinque suoi compagni, Michele Castaldo (operaio), Pietro Basso (riercatore), Raffaele Piccolo (leader dei disoccupati organizzati) e Ciccio Vicino (disoccupato) sono accusati di un reato pesantissimo: associazione sovversiva. Il mandato di cattura fu emesso nel febbraio di quell’anno. Salvatore, però, non riuscì ad arrivare alla conferenza stampa convocata per annunciare la sua consegna alle forze dell’ordine. A un posto di blocco si alzò la paletta di un agente e Salvatore ricorda ancora un aneddoto di quei minuti concitati: «Amura, ma sei armato? A quel punto cosa vuoi rispondere? Sto per consegnarmi con l’accusa di sovversivo e vengo in questura armato?».
In realtà Salvatore e gli altri cinque non c’entravano nulla con le Brigate rosse o i gruppi armati di quel pe riodo. Una grande manifestazione di massa, con circa 10.000 persone, sancì il rapporto strettissimo di quei militanti con il tessuto popolare della città e una leadership che aveva poco a che fare con la clandestinità dei brigatisti. Eppure l’allora sindaco di Napoli, Valenzi, definì Salvatore e i suoi compagni come gli «untori del terrorismo». Nella città governata dal Pci con il silenzio assenso della Democrizia cristiana gli «untori» erano l’unica opposizione che piantava grane e destabilizzava il patto tacito tra i due grandi partiti nazionali. La loro storia inizia in quei drammatici giorni successivi al 23 novembre 1980:
«Dopo l’immediato tempo del terremoto era quello di un’assoluta mancanza di case. Un sistema di graduatorie pubbliche manomesse in continuazione, infatti c’era una situazione clientelare enorme che non si sfuggiva. Con il terremoto arriva una bomba che acuisce l’emergenza. Io abitavo nella zona nord e dopo il sisma giravo in continuazione dove avevano costruito le case popolari per vedere quando occupavano perché era mia intenzione occuparla.
Il giorno dopo il terremoto sono iniziate le occupazioni in maniera spontanea. La gente ha visto queste case ultimate che erano moltissime. Solo a Scampìa erano 1.500 appartamenti e si è iniziato con le occupazioni attraverso il passaparola. Ho notato subito la composizione sociale di chi occupava. Erano generalmente sottoproletari della periferia nord di Napoli.
Poi c’erano anche gruppi che venivano da altre zone e una grossa fetta che veniva dal centro storico. E la dislocazione sociale era pari: sottoproletariato, artigiani che venivano da Napoli, quel magma di persone di condizione umile (lavoratori, manovali). Dopo alcuni giorni è cominciata l’occupazione della Vela gialla, sinonimo dell’organizzazione della lotta. Lì c’erano i compagni e primo embrione di organizzazione e discussione. Il punto forte, oltre alla Vela, erano il comparto S e il comparto H (i sette palazzi, 600 appartamenti), perché erano più numerosi. Lì avevamo organizzato in maniera capillare con i delegati di scala. Attraverso questi passavi le notizie e le proposte. Poi c’era il comparto S con 700 appartamenti. Anche lì un’organizzazione capillare».
Una volta presa la casa bisognava difenderla. Eppure il pericolo reale di uno sgombero non arrivò mai: si sarebbero trovati di fronte a 1.500 persone in strada senza un posto dove dormire. Salvatore continua il racconto: «Nelle Vele c’era il nucleo di compagni con collocazione politica diversa e quello del Cim (Centro iniziativa marxista) che prese la supremazia perché erano bravi nelle assemblee, un po’ meno nell’organizzazione. Questo è il contesto generale nel primo mese successivo al 23 novembre. Ci furono alcuni tentativi di sgombero per assaggiare la nostra forza, ma era chiaro che lo sgombero vero e proprio non ci sarebbe stato perché le famiglie erano tante. Potevi sgombrare 600 famiglie senza avere un’alternativa?».
Parola d’ordine: requisire le case sfitte
Questa reazione spontanea prima e organizzata poi produsse immediatamente i suoi nemici. Se neofascisti e camorristi erano le fazioni ostili più prevedibili, altri non lo erano. Infatti alcuni si nascondevano nei meandri del sistema di relazioni politico-sindacali e istituzionali. Salvatore riannoda i fili e in maniera precisa ricostruisce cosa avvenne in quelle prime settimane:
«Alla fine erano i sindacati con Sunia e Sicet a fare maggior pressione per il rispetto delle graduatorie: volevano cacciare noi e mettere chi era in graduatoria. Una situazione che smontammo subito con due elementi: illegalità della graduatoria perché reputavamo fosse un meccanismo clientelare di sindacati e partiti, per noi non rispecchiava il diritto sacrosanto e qui inizia il secondo punto: chi è venuto a occupare la casa era uno che aveva diritto, altrimenti non veniva in case non finite e in cantieri aperti. Nella prima fase ci furono elementi di scontro con la camorra che ci venne a sparare addosso. Una volta fu ferito Gaetano Marati che occupò una casa a Miano e poi ci vennero a sparare nella sede dove facevamo le assemblee.
Questi elementi sono stati importanti perché hanno costituito meccanismi interni di solidarietà e autodifesa che sono serviti a garantirci per l’incolumità di cui alcuni compagni avevano bisogno (quelli maggiormente attenzionati, nda). Poi abbiamo avuto a che fare con i fascisti ma furono cacciati indietro. Qualche occupante appartenente a frange fasciste fu messo ai margini».
Isolati gli infiltrati e dopo aver reagito alle intimidazioni camorristiche, il movimento avviò mesi di mobilitazione perenne con strumenti di azione pratici e finalizzati agli obiettivi degli occupanti. Non c’erano solo le manifestazioni di piazza ma si obbligavano le aziende pubbliche a migliorare la vivibilità di que- gli edifici.
«La lotta si basava principalmente con le manifestazioni, ne facevamo due-tre a settimana che vedevano una presenza massiccia con due-tremila persone in piazza. Avevamo un meccanismo di partecipazione capillare con la nostra organizzazione e poi l’effettiva necessità di difendere la casa che sentivamo nostra a tutti gli effetti. E i risultati si videro subito. Abbiamo occupato il 23 novembre e a Natale imponemmo all’Enel di mettere i contatori. Come? Andando all’Enel, occupando le sede e così facemmo con l’Arin. Facevamo manifestazioni con obiettivi precisi. Poi ci fu l’eleborazione politica. Siamo partiti dalle nostre case e dalla richiesta di metterle in condizioni di vivibilità. Poi siamo arrivati nel momento in cui l’organizzazione e gli abitanti diventarono coscienti: abbiamo alzato il tiro, toccando il punto cruciale a Napoli dei 30.000 vani sfitti. Così lanciammo la campagna per la requisizione delle case sfitte. Quando alzammo il livello delle proposta e dello scontro, sono partiti i mandati di cattura che hanno interessato il mese di marzo del 1981. Il movimento fu veloce perché la casa ce l’hai, hai l’obiettivo e lo hai conquistato. Nelle condizioni in cui eravamo avevamo un vantaggio rispetto ai partiti che non potevano fare niente per buttarci fuori dalle case. Sarebbe stata una bomba con 1.500 famiglie in piena emergenza post terremoto e con movimenti che sostenevano la battaglia (Banchi nuovi, le organizzazioni della sinistra extraparlamentare, nda). Avevamo questa sicurezza dell’obiettivo raggiunto e da difendere: quando occupi la casa già ce l’hai e devi solo difenderla. Il problema era l’inizio della campagna per la requisizione: a quel punto partirono i mandati di cattura. I mandati furono qualcosa di paradossale perché dicevano: “Poiché hai occupato molte case, significa costituire associazione sovversiva perché vai contro l’ordine costituito”. Se avessi occupato poche case non ci sarebbe stato l’associazione sovversiva. Andai in latitanza per alcuni mesi con l’aiuto dei compagni di Napoli» […]
(di Giuseppe Manzo, capitolo I de Le mani nella città)