Giuseppe Manzo – Sono passati 8 anni dalla morte di Pino Daniele. Il 5 gennaio del 2015 la notizia di primo mattino fu un colpo per la città e per i tanti napoletani – e non solo – cresciuti con le sue canzoni. A soli 60 anni il cuore già debole di Pino si fermò.
Napoli si strinse in un dolore collettivo chiedendo e ottenendo i funerali al Plebiscito dove 100mila persone erano raccolte in silenzio per l’ultimo addio. Intorno a quella scomparsa sembrava potesse nascere nella memoria sua, di Massimo Troisi e di tutti i grandi della cultura partenopea “tutta ‘nata storia”. E invece no, nulla di tutto questo.
Le celebrazioni, i concerti, i ricordi e le citazioni social sono buoni per la malinconia. La città stremata dalla pandemia e incattivita da una crisi etica, prima di quella sociale, è cambiata inevitabilmente, ma soprattutto non ha nulla a che vedere con quella rappresentata da Pino.
“Che cosa resta del passato Forse una 500 blu/ E un giradischi rovinato/ Che ormai non va più“
Tra le strade del centro storico la puzza di fritto accompagna i “pazziarielli” sole e mandolino per i turisti che se la ridono tra sfoglietelle e pizze: tutti i cliche odiati da chi ha provato raccontare Napoli – citando Benigni – “senza parlare della pizza e senza parlare del mandolino”.
Le periferie sono abbandonate e inseguono quella cultura trash ormai istituzionalizzata sul palco del 31 dicembre: il neomelodico poco pop – sdoganato da una sinistra lounge bar e impresaria di feste e concertini – fa da padrone. Come in passato i talenti vanno via perché se sei bravo o brava questa città non te lo perdona e ti celebra solo se muori.
“Napule è tutto nu suonno/E a’ sape tutto o’ munno/Ma nun sanno a’ verità”
Di buono oggi c’è il Napoli, con la squadra che al contrario della città fa gruppo e ha un leader autorevole. Di scrittori nemmeno l’ombra, a parte romanzieri d’appendice e giallisti da curva B, e non si vedono all’orizzonte figure capaci di proporre nuove visioni contro chi ancora agita il cappio di “funiculì funiculà”: “perchè Napule nun adda cagnà”.
A rendere giustizia al senso delle canzoni di Pino Daniele è stato Paolo Sorrentino con il suo “E’ stata la mano di Dio” e il suo Fabietto Schisa che vede “la realtà scadente” fatta di drammi dietro le porte delle case che si chiudono alle nostre spalle. Una realtà oggi fatta di milioni di persone di che arrivano a Napoli, la guardano, sentono sapori e profumi, e poi se ne vanno ma “non sanno la verità”